Daniela sognava l’Africa fin da bambina. Per questo non ha saputo dire di no quando il docente di Endocrinologia Nicola Napoli, all’inizio del secondo anno del corso di laurea magistrale in Scienze dell’Alimentazione e della Nutrizione Umana, ha proposto un’esperienza di tesi in questo continente.
Daniela non ha preso l’aereo da sola: è partita con lei anche Vittoria, compagna di corso, grazie al sostegno di Giovanni Mottini, responsabile dei progetti di cooperazione internazionale del nostro Ateneo. Destinazione la Tanzania, dove Daniela Mucci e Vittoria Russo sono rimaste un mese, la scorsa estate, con un duplice obiettivo: un’indagine nutrizionale in pazienti HIV positivi in terapia antiretrovirale e una valutazione negli stessi delle alterazioni del metabolismo glucidico (Vittoria) e dell’assetto lipidico (Daniela).
Un mese di indagini nutrizionali e valutazioni metaboliche
Nella prima fase della ricerca le due studentesse hanno analizzato abitudini e modelli alimentari tradizionali della popolazione locale, rilevando quanto sia frequente il consumo di cibi ricchi di zuccheri e raro quello di carne, pesce, uova, latte e frutta. Successivamente hanno valutato lo stato di salute dei pazienti, rilasciando loro un referto con tutte le indagini eseguite.
Per realizzare la tesi, le due studentesse hanno frequentato il St. Gaspar Referral and Teaching Hospital, fondato e tuttora gestito dalla Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue a Itigi, cittadina rurale che si trova perfettamente al centro della Tanzania, in un’area poco sviluppata e circondata da villaggi, a circa 1.300 metri di altitudine.
“Stando sul campo – spiega Vittoria – s’impara tanto. Davamo ai pazienti consigli nutrizionali, partendo dai cibi che coltivavano. E in certi casi il nostro aiuto poteva essere fondamentale: alcuni di loro non conoscevano nemmeno le modalità di cottura più adeguate”.
“L’impatto con i pazienti – ricorda Daniela – inizialmente è stato forte. Mi ha stupito la loro disponibilità e collaborazione. Col tempo ho cominciato a guardare i pazienti negli occhi, mi sono abituata al loro modo di parlare e di rapportarsi con noi. A un certo punto mi sono sentita così integrata che ho cominciato perfino a contare come loro e usare termini nella loro lingua locale”.
Conclude Daniela: “Mi ha reso felice collaborare ogni giorno anche nelle piccole cose. Ora il mio desiderio è tornare lì e trovare il modo di rendermi utile attraverso il mio lavoro”.
Aggiunge Vittoria: “Mi sono laureata a ottobre, adesso mi piacerebbe lavorare proprio nel campo della cooperazione internazionale. Prima del viaggio pensavo avrei lavorato in ambito clinico. Questo ancora mi interessa, ma l’esperienza africana mi ha aperto anche un altro mondo”.
Il mal di schiena causato dalla degenerazione del disco intervertebrale è ad oggi una delle patologie più diffuse, ma non dispone ancora di una cura efficace. Per questo e per le gravi disabilità che comporta, l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha incluso nella lista delle 20 patologie a cui dare massima priorità.
I ricercatori della nostra Unità di Ortopedia e Traumatologia, coordinati dal prof. Vincenzo Denaro, sperimentano da circa 15 anni l’utilizzo di cellule staminali mesenchimali del midollo osseo per la cura delle fasi iniziali e intermedie della degenerazione del disco intervertebrale.
L’uso di questa terapia cellulare per ridurre in tempi brevi e con effetti di lunga durata sia il dolore sia la disabilità provocati dalla degenerazione del disco intervertebrale è il focus del progetto RESPINE. “L’obiettivo – spiega il dott. Gianluca Vadalà, responsabile del progetto – è rendere disponibile una terapia per la cura della degenerazione del disco clinicamente testata e facilmente accessibile”. UCBM è l’unica rappresentante per l’Italia insieme ad altri ospedali, università e centri di ricerca in Francia, Spagna, Irlanda e Germania.
Al via la fase di sperimentazione
Dopo anni di sperimentazione in vitro e studi preclinici in vivo su modelli animali dagli esiti positivi, il progetto RESPINE consentirà di avviare la fase di sperimentazione clinica grazie a un finanziamento UE di 500 mila euro nell’ambito del programma Horizon 2020.
La sperimentazione coinvolgerà 112 pazienti affetti da degenerazione del disco, selezionati tra i centri che fanno parte del progetto. I pazienti scelti saranno sottoposti in regime controllato alla nuova terapia, che prevede un’iniezione nel disco intervertebrale di cellule staminali mesenchimali provenienti dal midollo osseo.
La sperimentazione consentirà di provare l’efficacia della terapia e, inoltre, di approfondire la sicurezza e la risposta immunitaria dell’organismo.
Uno studio pilota condotto su 11 pazienti con malattia di Parkinson aggiunge un nuovo tassello alle evidenze scientifiche finora raccolte sull’efficacia dell’AMPS (stimolazione automatica meccanica periferica), una tecnica di stimolazione plantare erogata con il dispositivo medico Gondola, che attiva alcune aree cerebrali deputate al movimento.
Lo studio è stato svolto dal dott. Carlo Cosimo Quattrocchi, Ricercatore di Diagnostica per Immagini e Neuroradiologia del nostro Ateneo, sotto il coordinamento del prof. Fabrizio Stocchi, Responsabile del Centro per la cura e la diagnosi del Parkinson dell’IRCCS San Raffaele di Roma.
I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne, dimostrano che la AMPS determina una maggiore attivazione delle regioni cerebrali coinvolte nella gestione del movimento e nell’analisi dello spazio circostante.
“La stimolazione automatica meccanica periferica – commenta Carlo Quattrocchi – ha un effetto su quelle aree cerebrali che nei pazienti parkinsoniani vengono abitualmente reclutate per compensare i deficit conseguenti alla malattia. Dopo una singola stimolazione migliorano velocità di cammino, equilibro e cadenza dei passi. Resta da dimostrare quali pazienti con Parkinson possono ottenere maggiori benefici da questa terapia e la durata degli effetti osservati sui sintomi motori”.
Dolore, contrattura muscolare e rigidità alla zona lombare: sono questi i principali sintomi della lombalgia, disturbo estremamente frequente in età adulta, con massima incidenza in soggetti tra i 40-50 anni di età di entrambi i sessi.
Nel 95% dei casi le cause di questo disturbo sono di tipo meccanico, derivanti da squilibri statici e dinamici che determinano contratture dei muscoli paravertebrali e artrosi delle articolazioni intervertebrali. I principali fattori di rischio sono rappresentati da sedentarietà, posture non ergonomiche e stress, ma anche da patologie preesistenti quali scoliosi, cifosi e osteocondrosi giovanili. Tutti fattori che, se trascurati, specialmente in gravidanza o in età avanzata, possono causare un peggioramento delle condizioni del paziente. Circa l’80% della popolazione è colpito da lombalgia almeno una volta durante la vita e oltre il 30% è trattato in modo inadeguato o in ritardo.
Riabilitazione e terapie strumentali per contrastare il dolore
“Per prevenire la cronicizzazione del problema è importante limitare al minimo il riposo a letto e iniziare subito un programma di riabilitazione – spiega la prof. ssa Silvia Sterzi, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Fisica e Riabilitazione del Policlinico Universitario –. Esercizi specifici eseguiti correttamente non solo non aggravano la patologia, ma assumono un ruolo chiave nel trattamento della sintomatologia dolorosa, garantendo l’integrità del sistema muscolo-scheletrico”.
In fase acuta terapie strumentali quali Tecar, InterX e laserterapia riducono l’infiammazione e di conseguenza il dolore, mentre la rieducazione posturale (Mezieres, Souchard, Feldenkrais) è fondamentale per ridurre al minimo le riacutizzazioni. “Spesso i pazienti giungono quando il dolore è già in fase cronica – conclude Sterzi – È importante invece ricorrere al medico fisiatra quanto prima per agire tempestivamente”.
A volte ritornano. È quello che è successo lo scorso 18 novembre alla Global Alumni Reunion, evento ideato e realizzato per riunire gli ex-alunni dell’Ateneo e farli sentire, per un giorno, nuovamente a casa. Forse alcuni di loro avranno provato stupore e orgoglio nell’incontrare i colleghi degli anni dell’università. Altri, laureatisi prima del 2007 nella sede storica di via Longoni, si saranno sentiti spiazzati nel confrontarsi con i nuovi spazi del campus universitario di Trigoria e misurare il tempo trascorso attraverso la crescita della struttura.
Oggi, sparsi tra i cinque continenti, ciascuno ha qualcosa da condividere: le proprie radici, umane e professionali, piantate nell’Università Campus Bio-Medico di Roma e gemmate, per alcuni, altrove.
Ad attenderli per la reunion un ricco programma di appuntamenti. Al mattino un tavolo tecnico con rappresentanti di importanti atenei europei – Christine Fairchild da Oxford, Anna Mundell da Bocconi e Sergi Molas da Navarra – che hanno offerto contributi relativi al network Alumni delle loro istituzioni; nel pomeriggio sei workshop accreditati Ecm sulle innovazioni provenienti dal mondo della chirurgia, le nuove frontiere della medicina e delle tecnologie biomediche, la ricerca infermieristica e le prospettive del biologo nutrizionista.
La giornata si è conclusa con la cena di networking al Rome Marriott Park Hotel, aperta dalle note dell’ensemble cameristico degli studenti.
A volte ritornano. Nel frattempo, quando sono lontani, è chiesto loro di essere ambasciatori dello stile UCBM nel mondo. Appuntamento alla prossima!
Un assistente virtuale per i pazienti affetti da malattia di Parkinson, attivo 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. “Il Neurologo risponde” è il prototipo sviluppato grazie alla collaborazione tra il nostro Ateneo e IBM e presentato in occasione della Giornata Nazionale per il Parkinson, iniziativa alla quale ha aderito anche il nostro Policlinico Universitario.
Il software utilizzerà sistemi d’intelligenza artificiale (IBM Watson) per assistere la persona affetta da Parkinson nella gestione ordinaria della patologia, dando consigli utili e rispondendo alle domande che gli saranno poste. Pazienti ma anche familiari e caregivers potranno in tempo reale soddisfare curiosità sulla malattia e avere risposte a dubbi sul trattamento farmacologico.
Un sistema che, costantemente monitorato dagli specialisti, potrà contribuire a migliorare i processi di diagnosi e cura della malattia di Parkinson, che solo in Italia colpisce circa 300 mila persone. “Un numero – spiega la dott.ssa Lucia Florio, neurologa presso UCBM – destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni, mentre si abbassa l’età dei pazienti che ne sono affetti”.
Stimolazione cerebrale profonda per agire sui neuroni
Sul fronte terapeutico, il nostro Policlinico Universitario è in grado di gestire la fase di programmazione della stimolazione cerebrale profonda, una tecnica chirurgica che prevede l’impianto di elettrodi nel cervello e il loro collegamento a un generatore di impulsi elettrici (pacemaker) collocato all’altezza del torace. La stimolazione elettrica agisce sui neuroni contribuendo a ridurre per un lungo periodo i sintomi del Parkinson quali movimenti involontari e complicanze motorie.
“Nella fase avanzata della malattia – spiega il dott. Lazzaro di Biase, dottorando in Scienze dell’invecchiamento e della Rigenerazione tissutale presso UCBM – il paziente può presentare fluttuazioni della sintomatologia. Quando la terapia farmacologica non è sufficiente a controllare i sintomi, è necessaria una stimolazione continua dei neuroni, che può avvenire chimicamente, attraverso l’infusione sottocutanea di apomorfina o l’infusione intestinale di levodopa/carbidopa gel, oppure elettricamente. Oggi i dispositivi di ultima generazione di stimolazione cerebrale profonda possono offrire ai pazienti un recupero concreto e significativo della qualità di vita”.
Si è svolta alla presenza dei genitori di Filippo Baldoni, lo studente di ingegneria scomparso nel dicembre 2014, la cerimonia d’inaugurazione della sala prove a lui dedicata. Un momento semplice ma fortemente sentito soprattutto da quanti avevano conosciuto il giovane, cantante e chitarrista per passione.
Allestita al piano -1 dell’edificio Trapezio, la sala è stata realizzata anche grazie al contributo della famiglia Baldoni, che in occasione del concerto organizzato lo scorso anno in ricordo di Filippo aveva espresso gratitudine per la partecipazione sincera e corale: “Ci ha confortato condividere l’immenso dolore che l’assenza di Filippo ha creato – scrivevano i genitori in una lettera – […] Ci ha fatto provare per la prima volta dopo tre mesi qualcosa che può ricordare la serenità”.
La strumentazione presente comprende una batteria e amplificatori per chitarra, basso e voce.
“La nostra Università – ha ricordato il Rettore, Andrea Onetti Muda, intervenuto alla cerimonia insieme al Direttore Generale, Paolo Sormani, e a tanti amici di Filippo – non è solo un luogo di studio e formazione scientifica, ma anche un contesto di condivisione di interessi e passioni. Prima fra tutte la musica. Questa sala, legata al ricordo di Filippo, non è un punto d’arrivo, ma un punto di partenza”.
Il contatto skin to skin tra la madre e il bimbo appena nato è più efficace dell’incubatrice. Lo conferma il progetto di ricerca in neonatologia condotto da Giulia Spina in Uganda e argomento della sua tesi di laurea discussa lo scorso luglio.
Il progetto, condiviso in Africa con la collega e amica Costanza Cutrona e sostenuto dal prof. Pietro Ferrara, relatore della tesi, dalla dott.ssa Laura Andrissi, dal prof. Massimo Ciccozzi e dalla dott.ssa Francesca Farchi, è ora in fase di pubblicazione, avendo fornito risultati di notevole interesse.
“Il contatto a pelle stimola l’allattamento e quindi la crescita del bambino – spiega Giulia –. Un aspetto che si è rivelato fondamentale in un contesto rurale come quello africano. Anche perché i benefici più rilevanti per i neonati riguardano il mantenimento della temperatura corporea e la conseguente riduzione dell’ipotermia e dell’ipoglicemia neonatali, complicanze facilmente gestibili in Paesi avanzati, ma completamente fuori controllo altrove”. È in questo secondo caso quindi che lo studio di Giulia e Costanza può risultare di vitale importanza per ridurre la mortalità infantile.
L’esperienza formativa della giovane, che si era già recata in Kenya nel 2011, non si è tuttavia limitata al progetto di ricerca per la tesi di laurea: “Dove c’è poca forza lavoro – spiega – vieni per forza valorizzato. Per questo ho fatto tanta pratica e sono cresciuta moltissimo. La cosa più bella poi è stata poter lasciare qualcosa di importante all’ospedale, insegnando da zero a tutto il personale della sala di ostetricia l’intera procedura, a partire dai valori da tenere monitorati”. Nel frattempo, sempre insieme a Costanza, organizza raccolte fondi a favore dell’Ambrosoli Memorial Hospital e aggiunge, illuminandosi in volto: “Tra due anni, da specializzanda, potrò essere ancora più utile”.
Il Centro Ascolto VoiNoi è presente nel nostro Policlinico Universitario come servizio di orientamento, sostegno psicologico individuale e di gruppo, educazione alla salute e formazione. Obiettivo, sostenere i caregiver nel loro compito assistenziale.
Nasce proprio dalla sua esperienza maturata nel corso degli anni la Carta dei Diritti del Caregiver Familiare. Un decalogo che desidera tutelare, supportare e rafforzare il ruolo e l’attività di assistenza che le famiglie svolgono a sostegno dei propri cari, in condizioni di fragilità. Eccolo.
La Carta dei Diritti del Caregiver Familiare
Il caregiver familiare ha diritto a:
- Ricevere informazioni adeguate sulla malattia e sui trattamenti proposti, affinché possa partecipare consapevolmente alle decisioni riguardanti la salute del proprio familiare.
- Ricevere dall’équipe curante tutte le informazioni necessarie per assistere al meglio il proprio caro.
- Ottenere informazioni chiare ed esaustive al fine di usufruire di tutti i servizi territoriali utili nella cura del familiare.
- Legittimare i propri sentimenti: lungo il percorso di assistenza al proprio caro è normale sentirsi affaticati, tristi, nervosi o in difficoltà.
- Prendersi cura di sé: “Devo ricordare che tutto ciò che di bello e piacevole potrò fare per me ricadrà positivamente anche sul mio familiare”.
- Riconoscere i propri limiti e capacità: “Non posso pretendere di saper fare tutto o di riuscire bene in ogni cosa, accettare i propri limiti vuol dire imparare a scoprire anche le proprie risorse”.
- Mantenere degli spazi di vita per sé: “Poiché faccio tutto il possibile per il mio caro, allo stesso modo devo farlo per me”.
- Chiedere e ricevere aiuto: è importante riconoscere i propri bisogni e quelli del proprio caro imparando a delegare.
- Tutelare la propria salute: avere un’alimentazione sana, mantenere un numero di ore di riposo adeguate, sottoporsi ai controlli medici di routine. Oltre che un diritto, è un dovere necessario a sostenere adeguatamente il carico assistenziale.
- Accedere a servizi sanitari di alta qualità, sulla base della definizione e del rispetto di precisi standard.
Ennio Morricone, genio indiscusso della musica classe 1928, il più grande compositore cinematografico degli ultimi decenni (due premi Oscar, tre Grammy Awards, dieci David di Donatello, undici Nastri d’Argento, un Golden Globe e un Leone d’Oro alla carriera), festeggia quest’anno il 60° anniversario da compositore e direttore d’orchestra con un tour mondiale. Tre saranno le tappe italiane: Roma, Verona, e Lucca. E senza dubbio porterà con sé sul palco e nel mondo un po’ del nostro Ateneo.
Facciamo un passo indietro. È la notte tra il 2 e il 3 agosto del 2015 e, all’età di 87 anni, Ennio Morricone si rompe il femore a seguito di una caduta accidentale. Tremano i fan e con loro anche il mondo del cinema, da Venezia a Hollywood. Qualche giorno dopo verrà operato all’interno del nostro Policlinico Universitario dal prof. Vincenzo Denaro, primario emerito di Ortopedia e Traumatologia. È la sera del 12 settembre 2015 e un uomo in carrozzina sale sul palco dell’Arena di Verona per dirigere il concerto davanti a 14.000 persone. È Ennio Morricone, il maestro, sul palco a soltanto un mese dall’operazione.
Al Foro Italico per aiutare la ricerca sulla colonna vertebrale
Per la tappa capitolina del suo tour mondiale, il prossimo 7 luglio, il Maestro ha deciso di donare i proventi al nostro Ateneo per sostenere la ricerca sulle cellule staminali per le malattie degenerative dell’apparato locomotore. L’Università Campus Bio-Medico nel cuore di Morricone. “Essere un medico – afferma il Maestro – è una missione incredibile. Nel Policlinico Universitario Campus Bio-Medico ho visto il prof. Denaro, gli altri medici e i loro collaboratori prendersi cura con grande attenzione di tutti i malati, compreso me. Se dovessi dedicare un mio brano al prof. Denaro sceglierei Mission, ma vorrei scrivere un pezzo proprio per lui, un brano che mi esca dal cuore”.