La malattia di Alzheimer è la prima causa di demenza nella popolazione italiana: oltre 600 mila persone convivono con questa condizione. Attualmente le poche terapie approvate per contrastarne l’evoluzione sembrano essere efficaci solo nelle primissime fasi della malattia. Per questo la ricerca scientifica e la diagnosi precoce sono fondamentali.
Già nel 2017 i nostri ricercatori – all’interno della Piattaforma integrata di ricerca tra IRCCS Santa Lucia e il nostro Ateneo, coordinata dal nostro prof. Marcello D’Amelio – avevano individuato nell’area tegmentale ventrale (VTA), legata alla produzione di dopamina, uno dei primi eventi nel corso di sviluppo della malattia.
Ora un nuovo studio ha verificato il legame tra l’Alzheimer e le compromissioni dei circuiti dopaminergici in pazienti con disturbo cognitivo lieve, scoprendo una finestra di intervento di due anni prima che la malattia si manifesti. La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Alzheimer’s Disease dalla dott.ssa Laura Serra, del Laboratorio di Neuroimmagini del Santa Lucia IRCCS di Roma, dal prof. Marcello D’Amelio, Responsabile del laboratorio di Neuroscienze Molecolari del Santa Lucia IRCCS e Professore Ordinario di Fisiologia Umana nel nostro Ateneo, e dal prof. Marco Bozzali, Professore Associato di Neurologia dell’Università di Torino.
“La VTA” spiega il prof. D’Amelio “è rappresentata da un’area molto piccola, che conta circa 600-700mila neuroni, piccolo numero rispetto agli oltre 80 miliardi di neuroni che compongono il cervello umano. Il nostro studio si è focalizzato sulle connessioni che si stabiliscono tra la VTA e il resto del cervello e come queste, a causa di un danno in VTA, si modificano nel corso di malattia. Il risultato, frutto di anni di ricerca, è stata la sorprendente capacità che lesioni della VTA hanno nel predire lo sviluppo della malattia di Alzheimer e l’obiettivo di quest’ultimo lavoro è stato comprendere la finestra temporale che un’analisi della VTA è in grado di offrire prima che si sviluppino i sintomi della malattia”.
Analizzando i risultati i ricercatori sono riusciti a confermare che la riduzione delle connessioni della VTA anticipa di circa due anni i danni ad altre aree del cervello e la comparsa dei primi sintomi clinici, una finestra temporale all’interno della quale è possibile l’utilizzo di farmaci volti a contrastare l’evolvere della malattia.
Il nuovo studio ha infine confermato la maggiore specificità di questa metodica nel diagnosticare con accuratezza la malattia di Alzheimer distinguendola da altre forme di demenza.
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Ridare il tatto a chi è stato amputato
La perdita di una mano in seguito a un evento traumatico è un danno devastante subìto ogni anno da circa 4 mila persone in Italia. Un drastico cambiamento che impatta non solo sull’ambito lavorativo, ma anche sulla sfera personale, limitando fortemente le capacità di compiere attività quotidiane e di interagire con le persone.
Per questo il nostro ateneo è da sempre in prima linea nella neuroprotesica, con un’attenzione particolare al tema del recupero delle capacità sensoriali, grazie all’utilizzo di interfacce neurali.
LifeHand, la prima protesi controllata dal pensiero
Nel 2008, per la prima volta un paziente è riuscito a muovere un arto bionico attraverso la propria mente. LifeHand, questo il nome della prima protesi capace di rispondere agli impulsi cerebrali, è stata il risultato di un progetto finanziato dall’Unione Europea, con il coordinamento dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Proprio nel nostro policlinico universitario sono stati impiantati nel braccio di Pierpaolo Petruzziello i quattro elettrodi che gli hanno permesso di controllare la mano robotica durante il mese di sperimentazioni.
LifeHand 2, la prima mano bionica che ‘sente’ gli oggetti
LifeHand 2, la prima mano bionica indossabile che restituisce all’amputato sensazioni tattili, è stata sperimentata nel 2014 dai nostri medici e bioingegneri insieme all’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’IRCSS San Raffaele di Roma, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’Ecole Polytechnique Federale di Losanna e l’Istituto IMTEK dell’Università di Friburgo.
PPR2, con Inail per restituire le sensazioni propriocettive
Risale sempre al 2014 la partnership tra il nostro ateneo e Inail, l’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro. Obiettivo, lo sviluppo di una nuova mano bionica impiantabile basata sull’utilizzo di interfacce neurali, per restituire ai pazienti amputati anche sensazioni propriocettive, ovvero la capacità di riconoscere la posizione del corpo nello spazio.
Il sistema protesico è stato quindi ottimizzato dal 2017 al 2019 attraverso l’introduzione di componenti fortemente miniaturizzate, stabili e biocompatibili, per migliorare concretamente la quotidianità dei pazienti.
Sensibilia, il futuro è realtà
L’ultimo passo in avanti si chiama Sensibilia. Una mano bionica che, impiantata in modo sperimentale nel 2019 su Clara, amputata 30 anni prima in seguito a un incidente domestico, ha dimostrato che è possibile compiere con destrezza movimenti anche complessi.
Al termine del progetto, realizzato dal nostro ateneo insieme al Centro Protesi Inail, Clara ha ricevuto una mano bionica simile a quelle della sperimentazione.
Reshape, per mani bioniche percepite come proprie
Ma se il presente si chiama Sensibilia, il futuro è Reshape. Il progetto del dott. Di Pino, laureato in Medicina e Chirurgia, dottorato in Ingegneria Biomedica e specializzato in Neurologia nel nostro ateneo, coniuga Neuroscienze, Ingegneria Biomedica e Clinica Neurologica per permettere agli amputati di non sentirsi più tali, grazie a una mano bionica percepita come propria. La sua idea – passare dal concetto di protesi (dal greco, artefatto, qualcosa di esterno) a quello di endotesi (qualcosa che faccia parte del corpo) – ha convinto nel 2015 a Bruxelles oltre trenta top scientists, tra i quali alcuni Nobel, e ha vinto quindi il prestigioso bando europeo ERC-Starting Grant.
“Il problema – spiega il ricercatore – è che le protesi di oggi sono il frutto dell’evoluzione della robotica industriale e rimangono un corpo estraneo. Il mio desiderio è allora quello di concepire una protesi con cui il soggetto non debba suonarci il piano, ma sentirsi completo durante una serata di gala. E questo è possibile solo partendo dalle sensazioni e dai processi cerebrali umani”.
WiFi-MyoHand, RGM5 e 3DAID
Nella primavera 2021, in collaborazione con il Centro Protesi Inail di Budrio e con la partecipazione della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il nostro ateneo ha avviato tre nuovi progetti nel campo delle protesi bioniche di arto superiore. WiFi-MyoHand svilupperà una nuova protesi bionica con ritorno sensoriale grazie a un sistema di stimolazione neurale completamente impiantabile e wireless. RGM5 individuerà nuove procedure di chirurgia bionica per l’adattamento del corpo dell’amputato alle protesi più innovative e restituirà la propriocezione. 3DAID realizzerà protesi e ortesi di mano innovative e low-cost grazie all’utilizzo di tecniche avanzate di prototipazione rapida con stampa 3D.
Una scoperta storica sull’origine del morbo d’Alzheimer
Una scoperta che ha fatto subito il giro del mondo, aprendo nuove frontiere per la cura del morbo d’Alzheimer. Secondo lo studio coordinato dal prof. Marcello D’Amelio e dalla sua Unità di Ricerca di Neuroscienze molecolari, l’origine dell’Alzheimer non risiede nella parte del cervello legata alla memoria, ma in quella deputata all’umore. Una tesi già confermata da una sperimentazione su pazienti svolta dall’Università di Sheffield, in Inghilterra, e che ora, pubblicato su Nature Communications, è uno degli studi più citati nella comunità scientifica internazionale.
Alla ricerca di una cura per l’Alzheimer
Raramente i risultati della ricerca di laboratorio raggiungono rapidamente l’applicazione clinica sul paziente. Non è questo il caso della scoperta del prof. D’Amelio e della sua équipe di ricerca, che potrebbe cambiare presto la vita di chi soffre di questa patologia neurodegenerativa – la più comune forma di demenza – per la quale per ora non esiste cura efficace.
Aprile 2017 – Il team UCBM scopre l’origine dell’Alzheimer
Il team del prof. D’Amelio scopre che l’Area Tegmentale Ventrale (VTA) – un’area del cervello che regola diverse funzioni quali ad esempio quella della gratificazione – va incontro a degenerazione molto prima che si formino le caratteristiche placche di beta-amiloide nelle aree del cervello storicamente associate alla malattia.
Marzo 2018 – Uno studio inglese su pazienti conferma la scoperta
Uno studio dell’Università di Sheffield (Inghilterra) dimostra con tecniche di risonanza magnetica nucleare che la VTA è effettivamente coinvolta nelle fasi precoci di malattia di Alzheimer. È la prima conferma sull’uomo. Il prof. D’Amelio la commenta in un editoriale sul Journal of Alzheimer’s Disease, rivista su cui è pubblicato il lavoro prodotto dal gruppo inglese.
Settembre 2018 – Uno studio italiano aggiunge nuovi dettagli
Uno studio tutto italiano, sotto la spinta del prof. D’Amelio, aggiunge ulteriori dettagli sul coinvolgimento della VTA in pazienti a diverso grado di sviluppo di malattia e che presentano alterazioni delle funzioni non-cognitive (ad esempio apatia, disturbi del sonno e dell’appetito).
Maggio 2018 – Iniziano le ricerche per la sperimentazione di nuovi farmaci
L’americana Alzheimer’s Association assegna al prof. D’Amelio un finanziamento triennale per ulteriori ricerche finalizzate alla sperimentazione preclinica di farmaci capaci di ridurre o addirittura bloccare la degenerazione della VTA. Le ricerche sono attualmente in corso.
Febbraio 2019 – Una ricerca valuta l’efficacia della musica contro l’Alzheimer
Farmindustria decide di sostenere la ricerca del prof. D’Amelio sponsorizzando uno studio non farmacologico. Poiché è noto che l’ascolto di alcuni tipi di musica funge da potente stimolatore della VTA, lo studio punta a stimolarla proprio in questo modo. La ricerca, attualmente in corso, valuterà l’efficacia della musica nel rallentare la progressione del morbo d’Alzheimer.
Giugno 2021 – Trovata la chiave per la diagnosi precoce
Un nuovo studio promosso dall’IRCCS Santa Lucia insieme ai nostri ricercatori e all’Università di Torino ha individuato nelle lesioni dell’area tegmentale ventrale (VTA) la capacità di predire lo sviluppo dell’Alzheimer, scoprendo così una finestra di intervento di due anni prima che la malattia si manifesti. La scoperta ha aperto nuovi importanti scenari per la diagnosi precoce.
L’impegno dei ricercatori continua
L’impegno quotidiano del prof. D’Amelio e del suo team continua quindi in laboratorio, per offrire presto nuove possibilità di cura a quanti soffrono della malattia di Alzheimer: circa il 5% della popolazione mondiale sopra i 60 anni, 1 milione di persone solo in Italia. Un numero che – dato il continuo invecchiamento della popolazione – potrebbe triplicare nei prossimi 40 anni, con costi sociali ed economici elevatissimi. Al lavoro dei nostri ricercatori è rivolta la speranza di tutti i pazienti e soprattutto dei loro cari.
Dona ora
17.189 i contribuenti che nel 2017 hanno destinato il proprio 5×1000 all’Università Campus Bio-Medico di Roma, con una crescita percentuale del 2% rispetto all’anno precedente. Grazie a loro, ben 859.445,06 euro andranno a sostenere la ricerca contro le patologie dell’invecchiamento.
I numeri – relativi alle Dichiarazioni dei Redditi del 2017 – sono stati diffusi dall’Agenzia delle Entrate proprio in questi giorni e confermano che ancora una volta è il nostro ateneo l’ente universitario preferito dagli italiani per la destinazione del proprio 5×1000.
Il denaro destinato dai 17.189 contribuenti aiuterà i nostri ricercatori a migliorare la qualità della vita degli anziani, attraverso progetti di ricerca innovativi nella lotta contro le patologie della terza età.
Destinare il 5×1000 alla ricerca scientifica non costa nulla ed è fondamentale per garantire il progresso della medicina e della bioingegneria.
Scopri come fare
Un metro e 86 centimetri per 110 chili di salute e potenza. Il fisico incute indubbiamente un sano timore reverenziale. Il sorriso, però, è di quelli rassicuranti. L’incontro con Sergio Parisse, campione di rugby, dietro le quinte dello shooting per la nostra campagna 5×1000, è l’occasione per conoscere meglio un campione che tanto e ancor più vuole regalare. Al rugby e non solo.
Sei tra i giocatori con più presenze nella Nazionale italiana: come si raggiunge un traguardo come questo?
Ci vuole sicuramente tantissimo impegno, costanza negli allenamenti e determinazione. Essendomi dedicato in questi anni esclusivamente al rugby, ho cercato di fare grande attenzione, in allenamento e nelle fasi di recupero, ai dettagli che fanno la differenza. Ho sempre fatto tutto per poter dare il massimo in campo. Come si giocano tutte queste partite? Serve serietà, professionalità e anche un pizzico di fortuna, perché in uno sport come il nostro gli infortuni sono dietro l’angolo.
Che cosa significa per te ‘giocare di squadra’?
È semplice: nel rugby le individualità sono importanti solo se si mettono al servizio del collettivo, perché nessuno vince le partite da solo. C’è bisogno dell’aiuto di tutti i compagni. È lo sport in cui ‘fare squadra’ per eccellenza. Come nella vita, perché, in fondo, è lo stesso: tante volte si hanno le capacità, le abilità per svolgere bene un certo lavoro o rapportarsi con le persone, ma poi c’è bisogno di qualcuno che ci dia una mano. Abbiamo bisogno di persone importanti nella nostra vita per andare avanti. Non si fa fortuna senza il sostegno degli altri. Un po’ come su un campo di rugby.
Il rapporto con il tuo fisico: come lo vivi adesso, rispetto a 10 anni fa?
Il rugby è cambiato moltissimo. Oggi è fondamentale avere una forma fisica ottimale. Tanti elementi che dieci anni fa trascuravo, come il recupero, il fatto di dormire bene ed essere attento all’alimentazione, non posso più eluderli. D’altra parte, da ragazzino, dopo ogni partita recuperavo più velocemente, il lunedì ero già fresco e pronto per la gara successiva. Oggi, sicuramente impiego un po’ di più a smaltire le tossine… Tra l’altro, giocare tantissime partite e prendere tutte le botte che ho preso mi costringe a stare sempre più attento ai fattori esterni.
Qual è il tuo rapporto con gli anni che passano?
Molto positivo: con il tempo ho acquisito tanta esperienza e ho dietro le spalle innumerevoli situazioni di stress, emozioni, partite vinte o perse. Quindi, approccio in modo molto più pacato e sereno le sfide importanti rispetto a qualche anno fa. Certo, l’adrenalina, la voglia e l’emozione sono sempre forti, ma dopo aver vissuto tanti pre o post-partita, magari per una finale, oggi riesco a gestire meglio le mie energie mentali. Da giovane, mentalmente, spendevo tantissimo già solo al pensiero della gara.
È vero che il venerdì dei pre-partita hai un appuntamento fisso con una bistecca? Quanto è grande?
La bistecca è sempre oltre 1 kg e 300 grammi… è un’abitudine ormai, vado dal mio macellaio di fiducia a Parigi e devo dire che non potrei farne a meno.
Come sarà Sergio Parisse tra 30 anni?
Spero di star bene fisicamente e, soprattutto, di essere ancora in salute. Certo, non potrò più giocare a rugby, ma mi auguro di rimanere in quest’ambito, perché è la mia grande passione. Magari da allenatore: per trasmettere le mie conoscenze ed esperienze ai giocatori più giovani che vogliono intraprendere questa carriera.
Il mal di schiena causato dalla degenerazione del disco intervertebrale è ad oggi una delle patologie più diffuse, ma non dispone ancora di una cura efficace. Per questo e per le gravi disabilità che comporta, l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha incluso nella lista delle 20 patologie a cui dare massima priorità.
I ricercatori della nostra Unità di Ortopedia e Traumatologia, coordinati dal prof. Vincenzo Denaro, sperimentano da circa 15 anni l’utilizzo di cellule staminali mesenchimali del midollo osseo per la cura delle fasi iniziali e intermedie della degenerazione del disco intervertebrale.
L’uso di questa terapia cellulare per ridurre in tempi brevi e con effetti di lunga durata sia il dolore sia la disabilità provocati dalla degenerazione del disco intervertebrale è il focus del progetto RESPINE. “L’obiettivo – spiega il dott. Gianluca Vadalà, responsabile del progetto – è rendere disponibile una terapia per la cura della degenerazione del disco clinicamente testata e facilmente accessibile”. UCBM è l’unica rappresentante per l’Italia insieme ad altri ospedali, università e centri di ricerca in Francia, Spagna, Irlanda e Germania.
Al via la fase di sperimentazione
Dopo anni di sperimentazione in vitro e studi preclinici in vivo su modelli animali dagli esiti positivi, il progetto RESPINE consentirà di avviare la fase di sperimentazione clinica grazie a un finanziamento UE di 500 mila euro nell’ambito del programma Horizon 2020.
La sperimentazione coinvolgerà 112 pazienti affetti da degenerazione del disco, selezionati tra i centri che fanno parte del progetto. I pazienti scelti saranno sottoposti in regime controllato alla nuova terapia, che prevede un’iniezione nel disco intervertebrale di cellule staminali mesenchimali provenienti dal midollo osseo.
La sperimentazione consentirà di provare l’efficacia della terapia e, inoltre, di approfondire la sicurezza e la risposta immunitaria dell’organismo.
Uno studio pilota condotto su 11 pazienti con malattia di Parkinson aggiunge un nuovo tassello alle evidenze scientifiche finora raccolte sull’efficacia dell’AMPS (stimolazione automatica meccanica periferica), una tecnica di stimolazione plantare erogata con il dispositivo medico Gondola, che attiva alcune aree cerebrali deputate al movimento.
Lo studio è stato svolto dal dott. Carlo Cosimo Quattrocchi, Ricercatore di Diagnostica per Immagini e Neuroradiologia del nostro Ateneo, sotto il coordinamento del prof. Fabrizio Stocchi, Responsabile del Centro per la cura e la diagnosi del Parkinson dell’IRCCS San Raffaele di Roma.
I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne, dimostrano che la AMPS determina una maggiore attivazione delle regioni cerebrali coinvolte nella gestione del movimento e nell’analisi dello spazio circostante.
“La stimolazione automatica meccanica periferica – commenta Carlo Quattrocchi – ha un effetto su quelle aree cerebrali che nei pazienti parkinsoniani vengono abitualmente reclutate per compensare i deficit conseguenti alla malattia. Dopo una singola stimolazione migliorano velocità di cammino, equilibro e cadenza dei passi. Resta da dimostrare quali pazienti con Parkinson possono ottenere maggiori benefici da questa terapia e la durata degli effetti osservati sui sintomi motori”.
Un assistente virtuale per i pazienti affetti da malattia di Parkinson, attivo 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. “Il Neurologo risponde” è il prototipo sviluppato grazie alla collaborazione tra il nostro Ateneo e IBM e presentato in occasione della Giornata Nazionale per il Parkinson, iniziativa alla quale ha aderito anche il nostro Policlinico Universitario.
Il software utilizzerà sistemi d’intelligenza artificiale (IBM Watson) per assistere la persona affetta da Parkinson nella gestione ordinaria della patologia, dando consigli utili e rispondendo alle domande che gli saranno poste. Pazienti ma anche familiari e caregivers potranno in tempo reale soddisfare curiosità sulla malattia e avere risposte a dubbi sul trattamento farmacologico.
Un sistema che, costantemente monitorato dagli specialisti, potrà contribuire a migliorare i processi di diagnosi e cura della malattia di Parkinson, che solo in Italia colpisce circa 300 mila persone. “Un numero – spiega la dott.ssa Lucia Florio, neurologa presso UCBM – destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni, mentre si abbassa l’età dei pazienti che ne sono affetti”.
Stimolazione cerebrale profonda per agire sui neuroni
Sul fronte terapeutico, il nostro Policlinico Universitario è in grado di gestire la fase di programmazione della stimolazione cerebrale profonda, una tecnica chirurgica che prevede l’impianto di elettrodi nel cervello e il loro collegamento a un generatore di impulsi elettrici (pacemaker) collocato all’altezza del torace. La stimolazione elettrica agisce sui neuroni contribuendo a ridurre per un lungo periodo i sintomi del Parkinson quali movimenti involontari e complicanze motorie.
“Nella fase avanzata della malattia – spiega il dott. Lazzaro di Biase, dottorando in Scienze dell’invecchiamento e della Rigenerazione tissutale presso UCBM – il paziente può presentare fluttuazioni della sintomatologia. Quando la terapia farmacologica non è sufficiente a controllare i sintomi, è necessaria una stimolazione continua dei neuroni, che può avvenire chimicamente, attraverso l’infusione sottocutanea di apomorfina o l’infusione intestinale di levodopa/carbidopa gel, oppure elettricamente. Oggi i dispositivi di ultima generazione di stimolazione cerebrale profonda possono offrire ai pazienti un recupero concreto e significativo della qualità di vita”.
La morte dell’area del cervello che produce la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per alcuni meccanismi di comunicazione tra i neuroni: sarebbe questa la causa del morbo di Alzheimer secondo lo studio pubblicato su Nature Communications da un’equipe di ricercatori coordinati da Marcello D’Amelio, responsabile dell’Unità di Ricerca di Neuroscienze Molecolari UCBM, in collaborazione con la Fondazione IRCCS Santa Lucia e il CNR di Roma.
L’origine dell’Alzheimer non è nella memoria
L’origine della patologia, che solo in Italia colpisce mezzo milione di persone oltre i 60 anni di età, non andrebbe ricercata dunque nell’ippocampo, la struttura del sistema nervoso centrale coinvolta nelle funzioni della memoria e su cui i ricercatori si sono focalizzati negli ultimi 20 anni.
“Abbiamo effettuato un’accurata analisi morfologica del cervello – spiega D’Amelio – e abbiamo scoperto che quando vengono a mancare i neuroni dell’area tegmentale ventrale, che producono la dopamina, il mancato apporto di questo neurotrasmettitore provoca il conseguente malfunzionamento dell’ippocampo, anche se tutte le cellule di quest’ultimo restano intatte, causandone il ‘tilt’ che genera la perdita di memoria”. Un meccanismo risultato perfettamente coerente con le descrizioni cliniche della patologia di Alzheimer fatte dai neurologi.
Una scoperta confermata in laboratorio
Un’ulteriore conferma della scoperta è stata possibile somministrando in laboratorio, su modelli animali, due diverse terapie: una con L-DOPA, un amminoacido precursore della dopamina; l’altra basata su un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, dopo aver iniettato il rimedio, si è registrato il recupero completo della memoria in tempi relativamente rapidi. Nel corso dei test, gli scienziati hanno registrato – accanto al miglioramento delle funzionalità mnesiche – anche il pieno ripristino della facoltà motivazionale e della vitalità. Si tratta di una seconda, importante, scoperta.
“Abbiamo verificato – chiarisce D’Amelio – che l’area tegmentale ventrale rilascia la dopamina anche nel nucleo accumbens, l’area che controlla la gratificazione e i disturbi dell’umore, garantendone il buon funzionamento. Per cui con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina, aumenta anche il rischio di andare incontro a una progressiva perdita di iniziativa fino all’apatia, indice di un’alterazione patologica dell’umore”.
I cambiamenti nel tono dell’umore non sarebbero dunque – come si credeva fino ad oggi – una conseguenza della comparsa dell’Alzheimer, ma piuttosto una sorta di campanello d’allarme dietro il quale si nasconde l’inizio subdolo della patologia.
Nuove prospettive per la cura di Alzheimer e Parkinson
Le prospettive che lo studio schiude sono molteplici. “Il prossimo passo – spiega ancora il docente UCBM – dovrà essere la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione.
Inoltre, i risultati ottenuti suggeriscono di non sottovalutare i fenomeni depressivi nella diagnosi di Alzheimer, perché potrebbero andare di pari passo con la perdita della memoria.
Infine, poiché pure il Parkinson è causato dalla morte dei neuroni che producono la dopamina, è possibile immaginare che le strategie terapeutiche future per entrambe le malattie potranno concentrarsi su un obiettivo comune: impedire in modo ‘selettivo’ la morte di questi neuroni”.
Dona ora per la Ricerca
Sempre più contribuenti scelgono di destinare il 5×1000 dell’Irpef al settore della ricerca scientifica e dell’università (21%). In questo scenario l’Università Campus Bio-Medico di Roma conferma il proprio trend di crescita.
Nell’ultima rilevazione, il nostro Ateneo registra un incremento dell’importo complessivo pari al 26%. Sono 18.209 le preferenze espresse nel 2014, per un totale di 882.604 euro. Fondi interamente messi a disposizione dei programmi di ricerca di UCBM, che quest’anno ha scelto di focalizzarsi in particolare sulle patologie legate all’invecchiamento.
L’Università resta nella top ten dei beneficiari del 5×1000 e al primo posto tra gli atenei che si contendono il contributo nel settore “Ricerca scientifica e Università”. In termini percentuali registra l’incremento economico più rilevante ed è l’unica a confermare una crescita nel numero delle scelte.
Una firma che non costa nulla
Tuttavia il 5×1000, a dieci anni dalla sua introduzione in Italia, resta ancora uno strumento di contribuzione non utilizzato e compreso da tutti. Secondo l’indagine Italiani Solidali, condotta da DOXA sul comportamento di donazione degli italiani, nel 2015 soltanto il 58% dei contribuenti ha espresso la propria scelta firmando la scheda di destinazione. Tra chi non ha espresso preferenze, il 50% è diffidente, mentre il 20% non è interessato.
Il contributo di tutti è fondamentale e non costa nulla. Per destinare il 5×1000 alla ricerca, basta inserire nel riquadro “Ricerca scientifica e Università” il nostro codice fiscale: 97087620585.